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IL REGALO DELL'ANGELO

Sono davvero pochi i lucchesi che conoscono la storia della gemma che sta nella mano sinistra dell'arcangelo Michele, la bella statua posta in cima alla chiesa che porta il suo nome.
Chi desideri osservarla può recarsi davanti alla Banca Commerciale Italiana, da dove, ma in un solo punto, la si può intravedere.
Occorre però molta pazienza, insistere, chinarsi più volte.
Certi giorni passando da lì vi ho sorpreso qualche straniero che tenta l'impresa. Vicino a lui dei lucchesi incuriositi, ignari invece del gioiello.
In un tempo lontano, quando ancora la piazza era attraversata da un canale e per accedere alla chiesa si doveva varcare un ponticello, viveva a Lucca un uomo molto semplice e buono di nome Costantino.
Era già avanti con gli anni. La moglie era morta quand'erano ancora giovani e non aveva avuto figli da lei.
La sua anima traboccava di amore per il prossimo.
Si può dire che da sempre, sin da quand'era ragazzo, Costantino si adoperava per fare del bene. Gli nasceva spontaneo questo sentimento ricco di carità e non riusciva a stare chiuso in casa se sapeva che altrove qualcuno aveva bisogno di lui.
Era molto povero e spesso non aveva niente da mangiare, ma la sua ricchezza interiore era incomparabile e dovunque egli si recava portava sempre la gioia con sé.
I poveri della città, i sofferenti, gli ultimi degli ultimi avevano parole di stima e di riconoscenza per lui che, malridotto più di loro, sapeva egualmente trovare il modo di consolarli.
I ricchi naturalmente non sapevano nemmeno che Costantino esistesse.
Vivevano in quegli anni una loro opulenza tranquilla.
Nessun disordine turbava la città e le guerre con Pisa e qualche volta con Firenze sembravano un ricordo lontano.
Ma più della pace dilagava la povertà.
Dentro le Mura si ingrossava sempre di più il numero dei mendicanti che si appostavano sulla porta delle chiese vestiti di stracci per domandare la carità.
Costantino si adoperava con tutte le sue forze per aiutare i più deboli.
Sentiva che da quell'impegno gliene veniva una grande serenità.
Spesso al mattino molto presto, prima di incominciare la nuova giornata tra i suoi poveri, attraversava il ponticello ed entrava in chiesa a pregare.
Quando ne usciva, rivolgeva lo sguardo all'arcangelo Michele che stava lassù in cima, sentinella della città, e supplicava che si facesse suo interprete presso Dio, affinché gli desse la forza necessaria per compiere anche quel giorno il suo lavoro.
Poi se ne andava tra i poveri.
Dietro la bella piazza sorgevano piccole vecchie case, alcune molto malandate, quasi cadenti. Era lì che soprattutto si svolgeva la sua opera di carità.
I ricchi, i mercanti rifuggivano invece quei luoghi. Parevano ignorarli.
Un anno Lucca fu colpita da una grande sciagura: fame e malattie si erano diffuse rapidamente per la città.
I più miserabili morivano come cavallette.
Costantino non sapeva che fare.
Quel poco cibo che aveva lo donava ai più gravi, cercava di alleviarne le sofferenze.
Si rendeva conto però che poteva fare ben poco per loro.
Quella calamità era davvero imponente per le sue deboli forze.
Ogni persona che gli moriva tra le braccia la sentiva come sua, e sua sentiva la colpa per non aver fatto abbastanza.
In chiesa, quando nessuno era presente, levava forte la voce a Dio, implorava la grazia per i suoi sventurati.
Lui stesso intanto era stato colpito.
Le sue energie scemavano. Il passo s'era fatto lento. I suoi anni si erano tutti svelati.
Doveva far presto.
Sentiva che non era più quello di prima.
Una mattina uscendo di chiesa si rivolse all'angelo.
Gli gridò, lo implorò di aiutarlo.
"Devo morire" gli disse. "Chi aiuterà i miei sventurati a vincere questa miseria?"
E si doleva ad alta voce che la sua vita non era bastata.
L'angelo restava lassù muto, e Costantino ancora lo supplicava.
"Fai tu qualcosa per loro. Io non ce la faccio più. Ti chiedo perdono."
Nei giorni seguenti nessuno incontrò più Costantino.
I suoi poveri mormoravano tra loro, manifestavano con disperazione il loro stupore.
"È morto" disse qualcuno dopo che un mendicante era stato alla sua casa.
Solo come un cane nel chiuso della sua stanza senza che alcuno gli recasse aiuto era morto.
Non c'era più Costantino ora per le viuzze della città.
Nessuno lo avrebbe più visto coperto di stracci, dal cuore grande come il mondo.
Ma una mattina, ecco che alzando gli occhi alla volta dell'angelo sopra la bella chiesa, qualcuno vede un brillio che prima non c'era.
È sfolgorante e pare che l'angelo ora sorrida.
Rapida come il fulmine corre la voce e anche si diffonde la notizia che la carestia è scomparsa, la pestilenza come per miracolo non piaga più la città.
I malati sono tutti guariti, percorrono le strade, si dirigono verso la piazza.
Si radunano sotto l'angelo che ha le ali spalancate. Sorride a loro.
Tutti vedono il brillio della gemma.
Qualcuno grida di salire lassù.
Quel gioiello è per loro, per i poveri, per alleviare le loro sofferenze.
"È l'aiuto implorato da Costantino!" esclama qualcuno.
E il parroco dice di sì, che bisogna andare a vedere, che quello è davvero un miracolo.
Alcuni uomini salgono la scaletta. La folla li segue attenta, tutti i visi rivolti all'insù.
"È grande la gemma" si sente dire.
"È gioiello d'una bellezza rara."
Poi si leva il mormorio.
Non si riesce a staccarlo dal dito dell'angelo!
Nessuna forza vi riesce.
Hanno provato, provano ancora in tanti. No, il gioiello non viene. Si deve desistere.
Scendono gli uomini. La folla li incalza, domanda, si meraviglia.
"È una gemma stupenda. Non ne esiste eguale al mondo. Il suo valore è inestimabile."
Nei giorni seguenti con più calma e con attrezzi più adatti si tenta ancora.
Di nuovo la folla è lì sotto coi visi all'insù.
Assistono anche i membri del Consiglio degli Anziani; mercanti e nobili famosi sostano sulla piazza.
Anch'essi sono attratti dallo straordinario prodigio.
Ma la gemma resta lì, resiste. Nessuno è capace di toglierla.
Ancora oggi è lassù.
Si dice che Costantino, invisibile, stia dietro l'angelo e lo implori di trattenerla, di non lasciarla cadere.
La gemma dovrà restare lassù fino a quando la città di nuovo ne avrà bisogno.

 

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